Responsabilità di chi scrive o commenta sul Web


I commenti rappresentano il cuore di un qualunque blog. La differenza sostanziale tra un sito web e un blog è proprio questa: nel secondo caso c’è interazione, c’è discussione, c’è creazione di nuovo sapere attraverso i commenti. Il problema sorge quando i commenti diventano inutili o offensivi. Esiste una categoria di individui che si diverte a inviare commenti provocatori, irritanti, fuori tema o semplicemente senza senso, con l'unico l'obiettivo di disturbare la comunicazione e fomentare gli animi. Sono i cosiddetti "troll". 

Una forma per evitare tali individui é di non pubblicare commenti osceni e/o offensivi é tramite la "moderazione dei commenti". Con questo sistema l'autore del blog, l'amministratore o il moderatore, sceglie di propria iniziativa quali commenti pubblicare. Non ha niente a vedere con la censura, ma é solo un modo per rendere il proprio blog conforme agli argomenti trattati, in modo di non andar fuori tema, e di non renderlo volgare con parolacce o termini offensivi.

Io sono l'unico autore, amministratore e moderatore di questo blog. Sono io che decido cosa pubblicare, cosa scrivere e quali commenti siano idonei al contesto. Per la veritá non é che mi diverta fare questo. Sarebbe forse meglio pubblicare tutto ció che mi arriva, con meno perdita di tempo che potrei dedicare ad altre cose. Ma é impossibile. In passato avevo usato questo sistema, ma col tempo ho dovuto cambiarlo mettendo una moderazione ai commenti, dato che ricevevo visite da idioti (non si potrebbe chiamarli diversamente) con molte offese alla mia persona.

Ma la moderazione ai commenti serve anche per un altro scopo. Facciamo un esempio: se qualcuno dovesse inviarmi un commento tipo "Tu sei un imbecille patentato e sarebbe utile che tu sparissi dalla circolazione" io potrei decidere di pubblicare tale commento. Aldilà delle offese personali non posso pensare di essere simpatico a tutti e alla venerabile età di 54 anni penso di sapermi difendere usando le parole appropriate. Ma se qualcuno dovesse dire: "Tutti gli italiani sono delle merde e dovrebbe sparire dalla faccia della terra" in questo caso dovrei pensarci bene prima di pubblicare una tale idiozia, perché, essendo io il moderatore del blog, qualcuno potrebbe vedere in questa frase una sorta di istigazione al razzismo e potrebbe denunciarmi per diffamazione o altri reati. E voi direte: "Ma non sei stato tu a dire queste cose, é stata quell'altra persona". Vero, ma essendo io il moderatore, pubblicando tale commento, sarebbe come io pensassi esattamente allo stesso modo di questo fantomatico lettore. Capite cosa voglio dire?

Per questo a volte mi vedo costretto a non pubblicare alcuni commenti. Anche se non sono io a scrivere certe cose ne sono ugualmente responsabile e potrei avere dei guai per questo. Quindi mi devo prevenire. Non crediate che stia esagerando. Giá in passato alcuni blogger sono stati intimati dall Giustizia per diffamazione, istigazione a delinquere e apologia di reato. Questo solo per aver pubblicato uno o più commenti di alcune persone.

Il sito italiano di Tom's Hardware ha pubblicato proprio il mese scorso un ottimo articolo molto dettagliato su questo problema. Leggetelo e capirete perché a volte mi riservo di non pubblicare alcuni commenti. Grazie per la considerazione.

Diffamazione via web

Il tema della responsabilità di chi scrive o commenta sul web è in continua evoluzione, di pari passo con la popolarità di Internet e con la trasformazione dell'informazione online. In un'epoca in cui le notizie si diffondono anche - e in certi ambiti soprattutto - tramite blog e social network e in cui i commenti sotto agli articoli sono quasi onnipresenti, i legislatori hanno dovuto più volte adeguare le normative a tutela di chi può essere offeso o diffamato tramite gli strumenti moderni di espressione.
In questo mutato contesto il reato di diffamazione online – ivi compresa, dunque, ladiffamazione a mezzo blog e Facebook –, è stato al centro di sentenze e orientamenti giurisprudenziali che hanno dato luogo ad accesi dibattiti, specie sotto il profilo del riparto delle responsabilità tra "chi scrive e commenta" e "chi dirige".
Persino a livello legislativo si è cercato di dare una svolta significativa alla disciplina vigente, mediante un disegno di legge volto ad estendere anche ai siti Internet "a natura editoriale" le norme dettate per i giornali tradizionali.
Di conseguenza se una volta il direttore responsabile di un giornale era quasi sempre l'unico a rischiare di incorrere in reati penali come la diffamazione, oggi anche blogger e utenti comuni devono prestare molta attenzione a quello che scrivono online.
L'Avvocato Alessandra Tiripicchio dello Studio Legale Associato Fioriglio-Croari ci spiega in questo articolo la legislatura in materia e in particolare i rischi in cui possono incappare gli utenti comuni che commentano sui social network, sui blog e su qualsiasi sito Internet.

La responsabilità di chi scrive o commenta

L'utilizzo improprio di blog e social network può sfociare, e spesso sfocia, nella consumazione di reati quali la diffamazione, proprio per la facilità di "comunicare con più persone" tipica di questi strumenti.
Le posizioni assunte dai giudici di merito sul punto non sempre sono state univoche, almeno sino ai più recenti interventi chiarificatori della Corte di Cassazione.
Così, parte della giurisprudenza di merito chiamata a pronunciarsi sul contenuto offensivo di commenti pubblicati in ambiente "social" aveva ritenuto, in un primo momento, di dover escludere il reato di diffamazione per mancanza dell'elemento essenziale della "comunicazione con più persone" richiesto dall'art. 595 c.p. Ciò in ragione del fatto che la comunicazione all'interno dei social network avviene in un ambiente "virtualmente chiuso" e, come tale, non idoneo a garantire la diffusività dei contenuti ivi pubblicati.
In seguito, altra parte della giurisprudenza di merito ha iniziato ad interrogarsi sulla possibilità di poter qualificare il social network come "altro mezzo di pubblicità"ai fini dell'applicazione dell'aggravante di cui all'art. 595, comma 3, c.p., già prevista per le ipotesi di diffamazione a mezzo stampa o a mezzo Internet inteso in senso lato. Conseguentemente l'attenzione dei giudici si è focalizzata sempre più spesso su elementi fattuali quali il numero di amici aventi accesso ad un dato profilo, l'utilizzo di "tag", il carattere restrittivo o meno delle impostazioni sulla privacy di un determinato profilo e via discorrendo.
Tuttavia, un primo significativo intervento "rivoluzionario" e chiarificatore sul punto si deve alla Corte di Cassazione, che con la sentenza n. 32444/2013 ha definito il "blog" come "uno spazio web attorno al quale, comunque, si aggregano navigatori che condividono interessi comuni, con la conseguente diffusività dei contenuti del blog stesso" (Cass. pen., sez. V, 25.7.2013, n. 32444).
In occasione di un intervento ancor più recente la Cassazione, nell'estendere anche al "social network" la suaccennata nozione di "blog", ha ricondotto anche i casi di diffamazione a mezzo social network entro i confini del reato di diffamazione aggravata ex art. 595 comma 3 c.p, perpetrata mediante l'utilizzo del mezzo di pubblicità. In particolare – ha precisato la Corte –, l'aggravante dell'utilizzo del mezzo di pubblicità sussiste "allorquando il fatto sia commesso mediante la pubblicizzazione su un profilo di Facebook, perché l'inserimento della frase che si assume diffamatoria su tale social network la rende accessibile a una moltitudine indeterminata di soggetti con la sola registrazione al social network e, comunque, a una cerchia ampia di soggetti nel caso di notizia riservata agli amici" (Cass. pen., sez. I, 16 aprile 2014, n. 16712).
Più precisamente, in tale pronuncia la Corte, facendo applicazione dei principi già consolidati in materia di diffamazione a mezzo stampa, ha ritenuto sufficiente, ai fini dell'integrazione della diffamazione a mezzo Facebook, che "il soggetto la cui reputazione è lesa, sia individuabile da parte di un numero limitato di persone, indipendentemente dall'indicazione nominativa". Infatti – ha precisato la Corte –, è "sufficiente ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo della fattispecie la consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell'altrui reputazione e la volontà che la frase venga a conoscenza di più persone, anche soltanto due".

La responsabilità di chi "dirige": blogger, moderatori, provider e direttori di testate telematiche

Se la posizione di "chi scrive e commenta" su blog e social network è divenuta via via più chiara e pacifica a seguito degli interventi della Cassazione, più complessa è, invece, la posizione di "chi dirige", dovendosi peraltro distinguere tra blogger, moderatori di forum e di chat, provider e direttori di testate telematiche.
Per quanto concerne il blogger, nei casi in cui questi assume la veste di "moderatore" filtrando i messaggi dei lettori prima di pubblicarli, lo stesso potrà essere chiamato a rispondere del reato di diffamazione "in concorso" con l'autore dei messaggi diffamatori, ove si accerti che il blogger abbia volontariamente scelto, dopo aver letto il messaggio, di continuare a diffonderlo in Rete. Per contro, nei casi in cui i messaggi dei lettori vengano automaticamente pubblicati, senza alcun filtro da parte del blogger,solo gli autori dei messaggi risponderanno di eventuali offese o reati, in quanto il nostro ordinamento non riconosce in capo al blogger alcuna posizione di garanzia rispetto agli articoli o ai messaggi di terzi pubblicati sul suo blog.
Del tutto simile alla posizione del blogger è quella dei moderatori di forum o chat, i quali, a differenza del direttore di un giornale cartaceo, rispondono solo a titolo di dolo nelle ipotesi in cui concorrano con l'autore di un messaggio diffamatorio nella diffusione del messaggio stesso.
I provider, ossia i c.d. intermediari della comunicazione, non sono mai responsabili dei reati commessi da terzi attraverso l'uso dei loro servizi, poiché la responsabilità penale è personale. Tuttavia, a carico del provider vi sono precisi obblighi di informazione e comunicazione, essendo egli tenuto ad informare senza indugio l'autorità giudiziaria o amministrativa, qualora sia a conoscenza di presunte attività o informazioni illecite riguardanti un destinatario del suo servizio, nonché a fornire, su richiesta delle medesime autorità, le informazioni in suo possesso atte a consentire l'individuazione del destinatario del servizio, al fine di prevenire attività illecite. In questo senso potrebbe sussistere una responsabilità "concorrente" del provider nel momento in cui venga avvertito della presenza di contenuti costituenti reato sul suo spazio web e non si attivi per cancellarli o per avvertire le autorità competenti.
Quanto, infine, alla responsabilità del direttore di una testata telematica, la sentenza della Corte di Cassazione n. 35511/2010 ha sancito che, fatta eccezione per l'ipotesi di concorso, il direttore di un giornale online non è responsabile penalmente dei contenuti diffamatori ivi pubblicati, perché la sua figura non è equiparabile a quella del direttore di un periodico cartaceo. Infatti, la legge sulla stampa (l. n. 47/1948) individua una specifica figura professionale, ossia quella del direttore di un periodico cartaceo, cui spetta il compito di impedire il compimento di "reati a mezzo stampa": nozione, quest'ultima, non estensibile alle "pubblicazioni telematiche".
Nonostante l’intervento della Cassazione sul punto, permangono ancora oggi forti dubbi in merito alla responsabilità penale del direttore di una testata online in caso di articolo diffamatorio. Tuttavia, tali dubbi potrebbero trovare soluzione con l'approvazione definitiva del ddl. S. 1119, intitolato "Modifiche alla legge 8 febbraio 1948, n. 47, al codice penale, al codice di procedura penale e al codice di procedura civile in materia di diffamazione, di diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, di ingiuria e di condanna del querelante nonché di segreto professionale. Ulteriori disposizioni a tutela del soggetto diffamato".
L’approvazione del predetto disegno di legge potrebbe, infatti, segnare la definitiva abolizione delle attuali distinzioni tra i diversi tipi di testate giornalistiche anche sotto il profilo della responsabilità penale, dando luogo ad un nuovo bilanciamento tra due interessi contrapposti, ma parimenti meritevoli di tutela: la libertà di espressione e il diritto all’onore e alla reputazione.

Conclusioni

Alla luce del nuovo orientamento giurisprudenziale – di gran lunga più severo rispetto al passato – è senz'altro lecito continuare ad esprimere un'opinione personale o critiche, purché si utilizzi un linguaggio sì deciso, ma garbato, non denigratorio o insinuante e, soprattutto, senza la volontà e la consapevolezza di offendere l'altrui reputazione.
Emblematico sul punto è il caso della giornalista de L'Unità, Marina Morpurgo, rinviata a giudizio con l'accusa di diffamazione per aver criticato sulla propria pagina Facebook una scuola professionale che aveva diffuso una campagna pubblicitaria – avente come protagonista una bambina bionda con un rossetto in mano e la frase "Farò l'estetista, ho sempre avuto le idee chiare" – ritenuta dalla giornalista lesiva della dignità della donna.
La giornalista, in particolare, decideva di pubblicare un commento sul suo profilo personale di Facebook, in cui – impiegando una citazione tratta dai vecchi fumetti di zio Paperone – affermava che "chi concepisce un manifesto simile andrebbe impeciato ed impiumato". La prima udienza del processo è prevista per il 15 maggio 2015, in occasione della quale il giudice dovrà decidere se si tratti davvero di diffamazione a mezzo stampa.
Accanto ai commenti su Facebook, particolare rilievo, sotto il profilo della diffamazione, sta assumendo più di recente anche il fenomeno del c.d. "retweet". Un retweet consiste nel condividere con i propri followers, attraverso il proprio account Twitter, un messaggio già condiviso da altri. Questo messaggio potrebbe contenere in sé o la frase offensiva, oppure un link ad una pagina web dal contenuto diffamatorio: nel primo caso,responsabile della diffamazione potrà essere considerato sia l'autore del tweet originale che l'autore del retweet, essendo peraltro giuridicamente irrilevante l'aver inserito, sul proprio profilo, l'inciso "reetweets are not endorsement" (letteralmente: i retweet non costituiscono approvazione); nel secondo caso potrà, invece, assumere rilevanza, in funzione di "scusante", il fatto che chi ha ritwittato abbia realmente letto o meno la pagina linkata.
È dunque opportuno che l'utente della Rete, il quale decida di manifestare online la propria opinione – ad esempio "postando" un commento sul proprio profilo Facebook – in relazione ad un politico, ad un personaggio noto, ad un amico, ad un prodotto, ad un servizio o alla campagna pubblicitaria di un'azienda, eviti l'uso di espressioni offensive, denigratorie o anche dubitative o allusive, tali da sfociare in attacchi personali che, direttamente o indirettamente, possano incidere sull'altrui sfera morale e privata. 
La Dott.ssa Alessandra Tiripicchio è laureata in Giurisprudenza presso l’Università di Bologna. Collabora con lo Studio Legale Associato Fioriglio-Croari e si occupa, in particolare, di tutela dei consumatori.
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1 commento:

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